Lo aveva detto e lo ha fatto. La capitana della Sea Watch 3, come è ormai noto, nonostante i reiterati dinieghi delle autorità italiane, che hanno negato il permesso alla nave di entrare nelle acque territoriali del Paese, ha deciso di far rotta verso Lampedusa col suo carico di migranti. Nel momento in cui questo articolo viene scritto, la nave dell’ONG tedesca, battente bandiera olandese, si trova davanti al porto di Lampedusa. E’ di tutta evidenza che la decisione di forzare il blocco non è da intendersi come un improvviso colpo di testa ma, esaminando la condotta fin qui seguita dall’ONG in questione, rappresenta di questa il logico portato. Proviamo a ricostruire brevemente la vicenda. Poco più di 2 settimane fa, la nave ‘Sea Watch 3’, dell’ONG tedesca Sea Watch, imbarca, come dichiarato in un tweet, “52 persone” che si trovavano a bordo di un gommone, al largo della Libia. Nello stesso tweet viene chiarito che la Guardia Costiera libica, pur avendo dichiarato l’intenzione di provvedere al soccorso, non lo avrebbe fatto, quindi la nave ha “proceduto al salvataggio come il diritto internazionale impone”. Inizia quindi la ricerca del porto sicuro individuato, tanto per cambiare, in quello di Lampedusa. Ma il Capitano è di diverso avviso, e firma il divieto di ingresso, transito e sosta per la nave. Inizia quindi un braccio di ferro tra capitani destinato a durare settimane, e non ancora concluso, che ha visto lo sbarco di 10 persone, tra cui donne incinte e uomini malati, a Lampedusa. Per la sorte degli altri migranti, rimasti a bordo della nave, il confronto si fa più serrato. Da una parte Salvini che, in forza del Nuovo Decreto Sicurezza, ribadisce ripetutamente il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. Dall’altra la capitana della nave che, pur consapevole delle conseguenze di un eventuale ingresso in Italia senza autorizzazione, che vanno da una sanzione di carattere economico al possibile sequestro della nave e alla denuncia del suo equipaggio, ha, dopo aver dichiarato più volte l’intenzione di farlo, deciso alla fine di forzare il blocco e di puntare verso Lampedusa. Questo nonostante i reiterati dinieghi delle autorità e il responso della Corte europea dei diritti umani che, chiamata in causa dal ricorso presentato dalla Sea Watch, ha sentenziato che, pur sussistendo in capo all’Italia l’obbligo di fornire “tutta l’assistenza necessaria” alle persone a bordo della nave che dovessero trovarsi “in condizioni di vulnerabilità” causa età e/o salute, mancano i presupposti per richiedere al governo italiano uno sbarco immediato, come dai ricorrenti richiesto, non essendo i migranti esposti ad un rischio di “danni irreparabili”. Vedremo come finirà la questione. Certo è che alcune considerazioni sono d’obbligo. E’ evidente che quella da parte della Sea Watch è una violazione evidente della sovranità italiana, e della legge che da questa scaturisce, e si noti che il guanto di sfida è stato lanciato non semplicemente a Salvini ma alle autorità italiane in toto. Non si può non notare il silenzio assordante da parte degli stati europei, compresi quelli a cui appartengono nave ed equipaggio, che stanno lasciando cuocere l’Italia nel suo brodo. Per quanto riguarda la questione del porto sicuro, la nave, rimasta al largo di Lampedusa a zigzagare per settimane, avrebbe avuto il tempo e la possibilità di cercare altri approdi, cosa che non è stata fatta anche perché nessuno ne ha offerto uno, ma chi dirige la Sea Watch 3 non ha agito con la stessa determinazione nei confronti di altri stati. E’ chiaro che il duello tra capitani difficilmente potrà vedere un pareggio, da come si sono messe le cose. E’ altresì chiaro che l’Italia, e in questo Salvini ha ragione, non può permettere ad una ONG di infischiarsene delle proprie leggi, altrimenti l’esempio produrrebbe conseguenze senz’altro deleterie. Non si capisce inoltre cosa ci sia di tanto scandaloso – come certi buonisti sembrano ritenere – nella difesa dei nostri confini, delle nostre leggi e della nostra sovranità, cosa che viene normalmente praticata da tutti gli stati degni di questo nome, anche quelli che poi si permettono di farci la predica.
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