Legambiente torna all’attacco del settore petrolifero, dopo lo scandalo degli ultimi giorni.
“Nel 2016 i privilegi di cui godono i petrolieri risultano del tutto insopportabili per ragioni di giustizia e di difesa del pianeta dai cambiamenti climatici – ha dichiarato il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini -. Tanto più che le fonti rinnovabili, efficaci e competitive da un punto di vista economico, vengono frenate da questi privilegi e da assurde nuove barriere che ne impediscono la diffusione in un Paese che avrebbe tutto da guadagnare nel diventare sempre meno dipendente dalle fonti fossili e dalle importazioni. Insomma, la transazione verso l’energia pulita sarebbe il processo più logico e sensato se il nostro ministero dello Sviluppo economico non fosse in realtà un ministero del Petrolio anni ‘50 ”.
Secondo gli ambientalisti, infatti, “Nello specifico, rispetto alle concessioni, con l’ultima legge di stabilità 2016 il Governo, mentre vietava tutte le nuove attività entro le 12 miglia marine, stabiliva che tutti i titoli abilitativi già esistenti potessero andare avanti fino a vita utile del giacimento, ovvero a tempo illimitato: bel regalo alle compagnie petrolifere che oggi possono quindi estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia a loro piacimento, senza alcun limite di tempo, senza dover interpellare nessun altro ente competente e senza doversi preoccupare troppo dell’obbligo di smantellamento delle piattaforme e di ripristino dello stato inziale dei luoghi, legato, con questa norma, alla fine delle attività. Fine che solo le compagnie petrolifere decideranno.
Le royalties in Italia sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono inoltre esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare: cioè, entro quei limiti è tutto gratis. Così. Nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni. Molto conveniente anche per le imprese straniere, che altrove trovano ben altre condizioni: in Danimarca dove non esistono più royalties ma si applica un prelievo fiscale per le attività di esplorazione e produzione, questo arriva fino al 77%. In Inghilterra può arrivare fino all’82% mentre in Norvegia è al 78% a cui però bisogna aggiungere dei canoni di concessione. Se in Italia avessimo portato le royalties al 50%, (proposta avanzata da Legambiente), nel 2015 ci saremmo trovati invece che con un gettito di 352 milioni di euro con uno da 1.408 milioni.
Le royalties si possono ovviamente dedurre dalle tasse: altro regalo sostanzioso a beneficio delle sole imprese, visto che gas e petrolio sono beni di tutti e per questo dovrebbero essere sottoposti a tassazioni giuste e trasparenti.
Ma anche i canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: dai 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione. Serve un aggiornamento che introduca cifre finalmente adeguate, come quelle adottate da altri stati europei: almeno 1.000 euro/kmq per la prospezione, 2 mila per le attività di ricerca fino a 16 mila per la coltivazione. In questo modo le compagnie petrolifere potrebbero versare alle casse dello Stato oltre 300 milioni di euro rispetto all’attuale milione.
246 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici (The fossil fuel bailout: G20 subsidies for oil, gas and coal exploration di ODI): si tratta di aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (SACE). A questi aiuti indiretti vanno aggiunti quelli più diretti legati alla riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300 mila euro nel 2015 e previsti in egual misura fino al 2018.
E fin qui i privilegi alle fossili, che vengono però assai amplificati dai freni alle rinnovabili. Infatti, al biometano, che rappresenta l’alternativa più concreta e con le maggiori prospettive di crescita all’utilizzo di gas di origine fossile, è vietato entrare in concorrenza. Al contrario di quanto avviene in Germania, per esempio, dove è consentito ad aziende agricole o discariche che ottengono biometano di immetterlo nella rete, da noi è vietato. In Germania questo è un settore fiorente con un ruolo crescente come alternativa al gas naturale, mentre da noi è tutto fermo, nonostante le potenzialità che secondo il CIB (Consorzio italiano biogas), sono tali da superare il 13% dei consumi e di creare 12mila posti di lavoro in particolare al Sud. Le ragioni? Mancano i passaggi tecnici per fissare le regole di immissione stabilite dal i ministero dello Sviluppo economico e Autorità dell’energia. Un passaggio che per una volta farebbe l’interesse generale e non quello dei petrolieri”.